Pubblicata nel 1904, l’opera postuma di Auguste Sabatier istruisce il processo teologico (vedasi Bernard Reymond, Le procès de l’autorité dans la théologie d’Auguste Sabatier, L’Âge d’Homme, Lausanne, 1976).
L’autore descrive dapprima il movimento di istituzionalizzazione che ha dato vita al cattolicesimo, un sistema di credenze che considera la Chiesa come « l’incarnazione storica e visibile della verità salutare e dell’azione redentrice di Dio » (citiamo dall’edizione Berger-Levraut del 1956, con una rimarchevole prefazione di Georges Marchal). Questo movimento culmina nella proclamazione del dogma della infallibilità pontificale il 18 luglio 1870 durante il Concilio Vaticano I.
Interrogandosi senza alcuna forma di animosità sull’avvenire del sistema romano e su una eventuale decomposizione del cattolicesimo, Sabatier scriveva: « Il tempo è un grande critico; scompone le rocce più dure; trasforma le istituzioni più intransigenti: saprà anche dissolvere l’amalgama cattolico e dare la libertà a ciò che vive, lasciando da parte ciò che non è altro che una sopravvivenza del passato ».
Ma, ben lungi dal disfacimento, e malgrado i tentativi di aggiornamento, ormai dissipati, che seguirono il concilio Vaticano II, il principio di autorità è stato difatti rafforzato dal culto della personalità del pontefice, iniziato sotto Pio XII durante l’anno santo 1950 e fiorito con la figura altamente mediatica di Giovanni Paolo II, beatificato di recente.
Sabatier individua poi la manifestazione del principio di autorità nel mondo protestante. Denuncia la confusione stabilita tra Bibbia e Parola di Dio. Se la Bibbia porta la rivelazione, non è pertanto la rivelazione. Il testo biblico, documento inserito nella cultura, può e deve essere sottomesso ai procedimenti della analisi storico-critica.
Ora il fondamentalismo biblico di oggi è in buona salute: difende l’infallibilità (in francese « l’inerrance ») della Scrittura (ispirata direttamente da Dio, non può sbagliare mai) e vuole mantenere una relazione diretta con la lettera della Bibbia, restringendo al massimo le mediazioni tra il testo e il lettore.
Infine se Sabatier auspicava l’emergere di una religione dello Spirito, di certo non prevedeva che il ventesimo secolo e l’inizio del terzo millennio sarebbero stati segnati dallo sviluppo di un cristianesimo carismatico che afferma l’immediatezza di un Dio onnipotente e predica un mondo reincantato, e simultaneamente propone forme di spiritualità combattenti e teologie della prosperità. Siamo entrati con questa ondata pentecostale nel « tempo della religione senza cultura » (vedasi il libro di Olivier Roy, La sainte ignorance, Paris, Le Seuil, 2008), caratteristico di un cristianesimo emozionale e quasi magico, estraneo ad ogni dialogo con le culture contemporanee.
Pur mirando a definire una religione dello Spirito, Sabatier prova difficoltà a dispiegarla al difuori di un rapporto antitetico con le religioni di autorità. Vede bene ciò che questa religione dello Spirito non è, ma gli riesce più difficile spiegare quello che è.
Lo spiegamento del suo pensiero è frenato da una tensione tra quello che da una parte chiama il « simbolismo critico », cioè una esigenza intellettuale di sottomettere l’espressione dottrinale della fede ad una analisi critica per farne risaltare meglio il cuore simbolico, e d’altra parte quello che chiama il « fideismo », cioè l’esperienza religiosa personale. Questa tensione permeava del resto la sua propria vita. Sabatier rivela senza dubbio molto di se stesso quando scrivendo su Schleiermacher scopre in lui « la religione del cuore considerata come un fatto di esperienza irreduttibile e anteriore ad ogni teoria religiosa, e una forza intellettuale di una potenza e di un rigore straordinario ». Dotto in tutte le discipline della teologia universitaria tedesca (studiò a Tübingen e a Heidelberg), figlio del Risveglio, Sabatier restò vita natural durante legato alla corrrente di fervore spirituale che aveva segnato la generazione del 1830.
Pertanto è forse nel prendere in conto e superare questa tensione tra religione del cuore e esigenza intellettuale che sta la possibilità di fondare una teologia dell’esperienza. Quest’ultima fa diritto tanto all’autonomia della persona riconosciuta nella sua originalità quanto all’alterità di Dio il cui Spirito si manifesta alla nostra coscienza; fa diritto ugualmente alle mediazioni culturali, particolarmente a quella della Bibbia, che permettono di rendere conto di questa esperienza nel contesto di una società individualista e secolarizzata, dove la validazione del credere non passa più tramite la sottomissione ai codici di credenze stabiliti dalle Chiese, ma sempre dipiù tramite la elaborazione di racconti; questi ultimi danno senso alla traiettoria personale del soggetto credente e sono suscettibili di essere confrontati ad altri racconti della stesso tipo.
Così la critica dell’autorità fatta da Sabatier conserva la sua pertinenza anche in una situazione culturale radicalmente nuova (scomponimento (in francese « déconstruction ») del soggetto e fine dell’umanesimo, non-evidenza del Dio personale della teologia classica, emergenza dei dialoghi interreligiosi). Il suo progetto teologico resta come un invito a pensare la fede non tanto come l’adesione a un insieme chiuso di credenze, riti e norme, ma piuttosto come l’esperienza di un cammino di libertà e di confronto con altri, credenti e non credenti. R.C.
Per spingere più avanti si leggerà : Bernard Reymond, Auguste Sabatier, un théologien à l’air libre, Labor et Fides, 2011).
Auguste Sabatier era considerato alla fine del secolo XIX° il più grande teologo di Francia dopo Calvino. Pochi ricordano questa figura marcante che influenzò la teologia protestante francofona per decenni dopo la sua morte nel 1901. Situandosi al difuori dell’opposizione tra ortodossi e liberali protestanti, questo ugonotto natìo dell’Ardèche pubblicò scritti di spicco su Paolo, Gesù, i miracoli, e i dogmi. Dopo aver svolto un ministero pastorale e insegnato teologia a Strasburgo, fondò la Facoltà di teologia protestante di Parigi dove fu ugualmente professore. Decisamente opposto ad ogni autorità in materia religiosa, respingendo sia il Vaticano che il pietismo, sviluppò un pensiero che preannuncia Tillich e Bultmann partendo da una ripresa di Schleiermacher. Il suo approccio del simbolo come tramite del religioso resta eminentemente moderno.
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