Ma ecco: perdonare non è dimenticare. Molta gente dice: “Non lo perdonerò mai”, intendendo dire che non dimenticherà mai il male irreparabile che le è stato fatto. Può esserci d’altronde una certa umiltà in questo atteggiamento che pensa in tutta verità, molto semplicemente, molto sinceramente, che non siamo capaci di perdonare e che non si può esigere da noi l’impossibile, al quale nessuno è tenuto, che questo è al di sopra delle nostre forze. Non sono un superuomo.
Si può poi aggiungere alla difficoltà del perdono, di un perdono autentico, quella della sua ambiguità. Perché alla fine ci può essere un atteggiamento di superiorità nei confronti dell’altro quando lo perdono, quando gli accordo nobilmente e generosamente il mio perdono, quando mi degno di accordarglielo. Tu supplichi in ginocchio e io, come un “signore”, io ti perdono dall’alto della mia grande mansuetudine. Ci faccio bella figura: sono colui che ti perdona. Ti tengo per così dire in mio potere.
Non c’è vero perdono se ho dimenticato. Perdonare perché si è dimenticato non è perdonare. Perdonare significa precisamente farlo sempre e ancora, quando tutte le ragioni per non farlo sono ben presenti, quando non ho dimenticato niente e vivo la ferita come fosse di oggi. Se si dimentica, il perdono non ha più alcuna realtà. Perdonare sebbene non si sia dimenticato, ecco cosa è quasi impossibile. È in nostro potere cancellare totalmente qualcosa? La storia è lì per dirci di no. Non posso passare la spugna come se niente fosse. Sarebbe mentire e negare la realtà. Quello che, irrimediabilmente, è esistito. E tuttavia, l’Evangelo mi domanda di perdonare.
Ritengo che perdonare sia una maniera pratica e concreta di credere alla resurrezione. Intendo qui “credere” nel senso di una fede attiva, di una fede che ha delle conseguenze esistenziali ed etiche, che si incarna; e non di una fede che è solo una credenza piena d’aria che non mi impegna, che è solo una dottrina abbastanza confortevole e confortante alla quale aderisco molto in teoria e poco in pratica.
Perdonare è uno dei modi, forse il più esigente, di fare della propria fede un atto vivente e vissuto. C’è in gioco l’etica di ogni vera credenza. Vi si ritrova la famosa idea della “grazia a caro prezzo” (Bonhoeffer, 1906-1945) che implica una fede attiva. Si può qui riprendere, precisandola, la domanda dell’Epistola di Giacomo (2,14) formulandola allora così: “A che serve che un uomo dica ho fede nella resurrezione, se non lo prova con i suoi atti?”
La fede nella resurrezione non nega la morte; al contrario, la prende sul serio. Non proclama una immortalità dell’anima che sarebbe in ogni caso un dato scontato. Essa dice la tragicità di una morte che deve prima di tutto essere attraversata per poter essere superata e vinta. Proclamare, in una maniera o nell’altra, la vita eterna, significa prima di tutto riconoscere, nella sua realtà tragica, la morte precedente che essa suppone.
È esattamente lo stesso con il perdono; esiste, ma non può in alcun caso fare appello all’oblio, sottostimare il male che è stato fatto e che mi è stato fatto. In effetti non sarebbe più, come ho detto sopra, il perdono. Credere alla resurrezione, e di conseguenze credere al perdono, è credere che l’impossibile è possibile, che la morte può essere vinta, che il male può essere superato. Non pretendo di avere questa capacità. Dico che il dinamismo creatore e ricreatore di Dio può realizzare questo in me. È in Dio e in Dio solo che io ho questa capacità di perdonare. Non ce la posso fare da solo. Umanamente, il perdono è impossibile. Non dico che solo i credenti possano perdonare; dico che chiunque perdoni è abitato da questo dinamismo creatore di Dio. “Chiunque ami è nato da Dio e conosce Dio” (1 Giovanni 4,7) Sì, chiunque perdoni è figlio di Dio e lo conosce.
Ecco allora una nuova interpretazione possibile di questa frase apparentemente eccessiva di Gesù secondo la quale bisogna perdonare “settanta volte sette”. (Matteo 18,22) Perdonare sempre e indefinitamente è in un certo senso abbastanza facile. Perdono in ogni caso, senza più pormi domande, per principio, come se niente fosse. Ora, non è così che funziona. Ogni perdono è unico e risponde ad un male unico e vissuto come terribile. Ogni volta si tratta di un atto che si esige e che è impossibile. Perdonare sempre è come dire che è impossibile perdonare veramente. Siamo qui testimoni di un passaggio sul confine dove sempre significa mai. O – ed è così che io lo comprendo – è dire che Dio solo può perdonare veramente, come solo Dio ci può resuscitare veramente.
Ugualmente, la grazia è un dono originario e gratuito, totale, di Dio, e non una facoltà umana. La grazia è la grazia che Dio ci accorda nostro malgrado, malgrado tutto. Il perdono fa parte della grazia. Ne è uno degli aspetti, una delle realtà fondamentali. Lo si constata nell’ordine della liturgia di ogni culto. Quest’ultimo si apre, quale che sia la formulazione, con una proclamazione della grazia: “La grazia vi è data da Dio…”. Anche la conclusione è una affermazione di questa stessa grazia nel cuore della benedizione: “Che la grazia di nostro Signore Gesù Cristo…”. È un errore chiamare “parole di grazia”, come talvolta si fa, quelle che seguono la confessione del peccato e dei peccati. Si tratta proprio di “parole di perdono”. E questo perdono nel cuore della grazia è un perdono divino, come il nostro perdono non può essere che un perdono in Dio e attraverso lui. C’è del resto un testo biblico (Marco 10,27) secondo il quale Gesù dichiara che ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio, Dio con noi e in noi.
Pour faire un don, suivez ce lien