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Ernst Troeltsch, teologo liberale molto audace

 Figlio di un medico, Troeltsch fu professore di dogmatica, dapprima brevemente a Göttingen e a Bonn, poi più a lungo a Heidelberg, fino al 1915, e infine all’Università di Berlino dove occupò la cattedra illustrata da Schleiermacher, però sotto un’intitolato scelto per placare la diffidenza dei circoli ortodossi e più consona al suo approccio generale: filosofia della religione.

Troeltsch lo dava chiaramente da intendere nel suo piccolo trattato programmatico del 1902 su L’assoluità del cristianesimo e la storia delle religioni, il cristianesimo non può e non deve più essere considerato come la religione « assoluta », cioè come la religione che supererebbe tutte le altre di per la sua origine divina. Non è più possibile (e non avrebbe mai dovuto esserlo!) dato quello che sappiamo ormai dalla storia del cristianesimo, della storia e dell’esistenza delle altre grandi religioni, e anche delle diverse scienze della natura.

Sono molto esplicite in materia le sue riflessioni sulla nozione di salvezza, che presentò durante il corso tenuto a Heidelberg durante l’inverno 1912-13. Per farla breve, il cristianesimo non possiede l’esclusività della salvezza.

Le prime ragioni sono di ordine storico. Contro Harnack (teologo protestante tedesco,1851-1930) e parecchi teologi liberali, Troeltsch contestò l’idea che sarebbe possibile estrarre dal testo storico dei vangeli un « nocciolo » esprimente una « essenza del cristianesimo » non sottomessa alle vicissitudini della storia. Come Loisy (teologo cattolico francese, 1857-1940), egli volle prendere in conto il fatto che la fede cristiana ci è stata trasmessa non soltanto dai testi, ma anche dalla mediazione di tradizioni e istituzioni di cui non si può fare astrazione.

Invece, per pensare e esprimere oggi la fede, ci tocca gettare uno sguardo critico su queste mediazioni tanto inevitabili quanto necessarie, e non aver paura di sottoporrle a discussione. Così Troeltsch non esitò a contestare fin negli scriti di Paolo la presenza di una concezione espiatoria segnata da un giuridismo che non si ritrova nella predicazione di Gesù, cioè l’idea via via sempre più sviluppata che Gesù soffrendo e morendo sulla croce avrebbe dovuto « pagare » a Dio il prezzo dovuto per « riscattare » il peccato di Adamo.

Ci sono poi delle ragioni storiche: sono cresciute moltissimo le nostre conoscenze sulla lunghissima storia dell’umanità (più di 100 000 anni per il solo homo sapiens) e sull’evoluzione che ha dato origine al genere umano, e anche quel che sappiamo della storia del nostro pianeta e del suo posto nell’universo. Benchè sia una conoscenza ancora molto parziale, tutto ciò e molte altre cose ancora non ci consentono più di sostenere il pensiero che Dio sarebbe intervenuto in un dato momento della storia, agli albori della nostra era, per definire la sorte eterna di tutto il genere umano, vedasi dell’universo intero. Il fatto Gesù è e resta supremamente importante per i cristiani, ma non è il solo ne il primo ne necessariamente l’ultimo.

Infine ci sono le ragioni legate alla storia delle religioni nel loro insieme. Troeltsch rimane il più chiaro rappresentante di quello che si è chiamato « la scuola della storia delle religioni ». Poco importa la tradizione nella quale si manifesta, la fede cristiana riveste sempre forme che l’apparentano alle religioni in generale. È dunque necessario conoscere quelle altre religioni per interpretare giustamente Troeltsch e anche carpire la sua indiscutibile originalità, quando per esempio parla della volontà, della santità o dell’amore di Dio, e le conseguenze che ne derivano nella sua concezione della persona umana e della vita in società.

Si capirà che Troeltsch non è mai stato tra quelli che pensavano di dover rompere radicalmente con la religione, come se la salvezza del cristianesimo ne dovesse dipendere. Al contrario per lui la religione è un a priori della coscienza umana; dalle sue origine più remote fa parte della stessa natura dell’uomo. Il problema dunque non consiste nel « de-religiosare » l’essere umano, perchè costui è indefettibilmente religioso; lo è anche quando si crede irreligioso, dato che la non-religione, sopratutto militante, non è mai che una forma della religiosità rigirata nell’apparenza del suo contrario.

Per il cristianesimo il vero problema della religione è che sia sempre sottomessa ad evangelizzazione, nel senso più degno del termine e qual che ne sia la forma.

Troeltsch era un fervido amante della patria. Pur mostrandosi molto critico dell’espansionismo propagandato da certi circoli militari prussiani già prima della guerra mondiale, era nondimeno convinto nel 1914 che la Germania avesse il diritto per se. Dopo la sconfitta, duramente colpito dalle condizioni imposte al suo paese dal trattato di Versailles, fu però il solo teologo protestante tedesco di nome ad assumere responsabilità politiche (sotto-segretario di Stato) e a sostenere la Republica di Weimar.

Questa evoluzione della situazione spiega forse perchè, nelle conferenze che avrebbe dovuto pronunciare in Gran Bretagna nel 1923 se la malattia non gli avesse bruscamente troncato la vita, egli abbia portato ancora più avanti di prima la sua relativizzazione non della fede cristiana (la fede si riferisce direttament a Dio) ma del cristianesimo, cioè delle forme in cui la fede si esprime e si trasmette.

D’ora in poi, segondo lui, è doveroso riconoscere non soltanto che il cristianesimo è solo una religione tra le altre, ma ancora che è una religione legata al contesto occidentale e confinata nei suoi limiti. Tra le religioni quindi « non ci possono più essere conversioni o trasformazioni dell’una nell’altra, ma accomodamenti e mutua comprensione ».

Tra tutti i teologi della tendenza detta liberale, Troeltsch rimane uno dei più intrepidi per la sua lucidità e la sua capacità di pensare fin nelle sue conseguenze più scomodanti la situazione della fede cristiana nel contesto occidentale contemporaneo, e di farlo in modo positivo. Nel periodo tra le due guerre mondiali la teologia dialettica, con Karl Barth in prima fila, aveva creduto di poterlo condannare all’oblio, quasi che fosse l’unico modo di farla franca con un pensiero tanto audace che ricco di possibilità per l’avvenire. Un secolo più tardi dobbiamo riconoscere in lui un apritore di piste, un autore di testi la cui lettura dovrebbe essere d’obbligo a chiunque intende coltivare un pensiero teologico saldo nel nostro mondo movimentato.

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