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Dio, tra convinzione e libera immaginazione

Quando mi interrogano su Dio, mi accorgo che c’è una differenza tra le mie conoscenze sulla religione e le mie convinzioni religiose. Nel primo caso prendo una posizione accademicamente opportuna in rapporto ai miei studi in filosofia ermeneutica, la disciplina che studia le condizioni dell’interpretazione umana. Al contrario, al livello di convinzione conservo ancora, senza alcuno scrupolo di coerenza, la stessa immagine ingenua di Dio che mi ero fatta nelle mie letture infantili.

Personalmente, non trovo questa distanza tra me e me stesso né fastidiosa né lacerante, nella misura in cui ci troviamo tutti in una situazione simile ogni volta che parliamo del “levare” e del “calare” del sole, ben coscienti che il sole non si muove. Potrei proprio dire che, come i modelli geocentrico ed eliocentrico, le mie conoscenze e le mie convinzioni su Dio e la religione vanno in due direzioni opposte.

Nelle mie ricerche filosofiche io insisto sulla potenza della parola di Dio che rovescia l’attività umana in passività. L’ermeneutica si preoccupa di pensare gli sforzi che l’uomo compie per interpretare se stesso, gli altri e il mondo che abita, mentre la teologia si occupa di mostrare l’uomo in quanto essere interpretato da Dio. Checché ne dica il teologo riformato Gerhard Ebeling (1912-2001), a me sembra che non si possa fare una teologia ermeneutica: l’intervento di Dio sull’uomo può persino dirsi anti-ermeneutico, poiché annulla tutte le nostre ricerche di senso.

Anche se non posso dirmi credente, non nego di avere sovente giocato, nella mia immaginazione, con Dio, la sua forma, la sua personalità, la sua essenza e il suo rapporto con noi. A questo livello – che io porrei tra la convinzione e la libera immaginazione – mi sembra di avere scoperto tutta l’impotenza della parola di Dio. Quando ero piccolo, rifiutavo la letteratura e leggevo solo libri di divulgazione scientifica. In particolare, amavo pensare alle analogie tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo: la forma del sistema solare mi sembrava una ripetizione della struttura dell’atomo, con il suo nucleo attorno al quale girano gli elettroni. E in fondo, se gli atomi sono gli elementi che costituiscono anche il mio corpo, mi piaceva allora pensare che le galassie erano come le cellule di un corpo gigantesco.

Tale era la mia immagine di Dio all’epoca; se ci fosse stato un Dio per me, e se qualcuno mi avesse obbligato a dirne qualcosa, avrei detto che è come un grande corpo vivente di cui noi siamo le cellule. E a ben guardare, tale è ancora la mia immagine di Dio, ora che sono più cosciente di certe implicazioni di quella fantasia infantile. Io direi che, secondo la mia convinzione, Dio, benché forse sia salvatore, è indifferente al nostro destino, precisamente perché non può occuparsi della nostra sorte. Siamo noi piuttosto i responsabili del suo destino, della sua salute e dunque della sua (e nostra) esistenza. Potrei difendere questa posizione a partire dal Dio impotente di cui parlava il filosofo Hans Jonas in “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” o anche a partire dal suo “principio responsabilità”. E tuttavia preferisco restare ancora, come quando ero piccolo, al livello della libera immaginazione, per non dover rendere conto a nessuno, per non finire come il mugnaio del XVI secolo di cui parla Carlo Ginzburg nel suo libro “Il formaggio e i vermi”: giustiziato per ordine del Sant’Uffizio.

Quello che, a livello delle mie conoscenze, considero un principio onnipotente, lo ritrovo a livello delle mie convinzioni in tutta la sua impotenza. Tornando all’analogia dei due modelli, geocentrico ed eliocentrico, dirò per concludere che, seppure efficace, essa dice anche troppo riguardo al mio punto di vista su Dio, perché in questo caso non saprei e non vorrei dire se è il sole che si muove attorno a noi o se siamo noi a spostarci attorno a lui.

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