La Chiesa cattolica non è da meno nel suo rigido rifiuto di ammettere i divorziati risposati alla mensa della comunione eucaristica o il suo atteggiamento sospettoso in materia di morale sessuale, per esempio la sua posizione, mai cambiata dall’enciclica Humanae Vitae del 1968, sulla contraccezione. Sembra che le virtù passive di obbedienza, di rinuncia, di umiltà e di sacrificio siano i principî cardine di ogni vita cristiana morale. Quello che mi sembra più di tutto deplorevole nella reazione di questi cristiani è la loro dimenticanza della parte più viva della predicazione e della prassi di Gesù, nei confronti di coloro che la società del suo tempo considerava peccatori, escludendoli. È significativo che sia il libro del Levitico il più sovente citato per giustificare la condanna di chi si rivela troppo differente nei suoi comportamenti sessuali e amorosi. Sappiamo quanto questo libro del Primo Testamento può essere impietoso e minaccioso nei confronti di tutto ciò che infrange il codice di santità. Mi sembra proprio che sia il dio del Levitico che si esprime nelle reazioni indignate di questi credenti. Per dirla in breve, il dio al quale queste persone si riferiscono è la voce di una coscienza morale impietosa, il dio tremendo e crudele del nevrotico, l’occhio che “era nella tomba e guardava Caino” della poesia di Victor Hugo, il dio che minaccia, al quale è imperativo dare in continuazione delle garanzie di buona condotta. Questo dio collerico e vendicativo è difficile da sradicare dalla psiche e risorge in continuazione nello spirito umano, contaminando e sfigurando il Dio stesso di Gesù Cristo quando viene insegnata quella mostruosità, ovvero che egli esiga la morte espiatoria e sostitutiva di suo Figlio per poter perdonare il peccato e i peccati degli uomini che avrebbero attentato al suo onore e alla sua gloria! Cosa spinge gli esseri umani a concepire un tale dio? Da quali processi psichici può nascere questo volto oscuro e demoniaco di Dio? Ecco la questione che da psicologo e credente vorrei ora affrontare.
Il senso di colpa verso il padre onnipotenteSono sempre più colpito dall’estrema pertinenza delle ipotesi avanzate da Freud per spiegare la formazione della rappresentazione di una certa immagine di Dio nella psiche umana. Dio appare effettivamente come il rappresentante della coscienza morale originata dal senso di colpa nei confronti del padre. Sigmund Freud (1856-1939) descrive questi meccanismi in particolare in “Totem e tabù” (1912) ma anche in “Mosè e il monoteismo” (1939), in “L’avvenire di un’illusione” (1927) e in “Il disagio della civiltà” (1929). Lo scenario inconscio del complesso di Edipo può rendere conto della formazione di questo dio-super-io, onni-potente e spietato che regna nel nostro inconscio. Il desiderio all’opera qui è quello di pervenire alla pienezza e alla completezza. Il bambino vuole impadronirsi dell’oggetto suscettibile di realizzare la totalità del suo desiderio e occupare, a costo di scacciarlo, il posto del padre che egli immagina gioire del possesso di tale oggetto. Ora, il peccato descritto nel libro della Genesi non è forse omologo al desiderio edipico, ovvero divenire come dèi? Sant’Agostino dice infatti che il peccato è odio di Dio, imitazione perversa di Dio. Il Satana che mente e divide fin dall’origine, che è in noi, non ci suggerisce forse che Dio vuole conservare per sé solo i suoi privilegi? Il tentatore fa apparire i nostri limiti (“non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male”, vale a dire della pienezza dell’essere e della conoscenza) come se fossero la volontà di un dio malvagio al quale non manca nulla e che vuole avere tutto per sé (Genesi 3:1-5). “Il peccato originale dell’uomo” scrive Freud “è indubitabilmente un peccato contro Dio padre”. “Un giorno, i fratelli che erano stati cacciati (dal paradiso) si coalizzarono, uccisero e mangiarono il padre […] Nell’atto di mangiare arrivavano a realizzare l’identificazione con lui, ciascuno si appropriava di una parte della sua forza […] Il padre morto divenne più forte che non fosse stato da vivo […] Ciò che un tempo egli aveva impedito con la sua esistenza, da allora essi stessi se lo proibirono”. È così che Freud descrive la formazione del super-io, del bisogno di punizione e del senso di colpa che ne scaturiscono nel suo leggendario saggio “Totem e tabù”. Il pasto eucaristico, scrive, è una nuova eliminazione del padre, una commemorazione dell’omicidio originale in cui il credente consuma il suo Dio, identificandosi con lui e impadronendosi della sua forza. A costo di anticipare quel che segue, bisogna dire che, erede di quel padre, il vero volto di Cristo scompare per rivestire la maschera spaventosa del Dio Padre grandioso e spietato del super-io. Il Cristo pantocrator (“in gloria”, onnipotente) dell’arte bizantina o il Cristo Giudice degli ultimi tempi della Cappella Sistina ne sono, a parer mio, una stupefacente illustrazione. Non dobbiamo stupirci che gli uomini e le donne del Medioevo abbiano preferito affidare la loro preghiera alla Madre di Gesù: “O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria” come canta il Salve Regina, antifona composta nel XII secolo. La mamma, nel vissuto del bambino, è colei che addolcisce il rigore paterno.
Di fronte al dio immaginario la cui definizione è “di essere o di avere ciò di cui ci priva”, come dice Lacan (1901-1981), prodotto dei nostri desideri infantili di onnipotenza, l’uomo riattiva, per così dire, il teatro inconscio di quello che, in un primo tempo, Freud ha chiamato il complesso paterno. Di fronte all’Eterno, l’uomo che si sente colpevole di formulare tali desideri di morte eserciterà di conseguenza una repressione spietata su tutte le sue pulsioni sessuali e aggressive che gli paiono all’origine della sua mancanza e della sua colpevolezza verso quel Padre e Dio da cui si attende protezione e sostegno in ragione della sua debolezza, e che rischierebbe di perdere se il suo augurio si realizzasse. Il senso di colpa “nato dall’ostilità repressa nei confronti di Dio” è al servizio della megalomania del desiderio di ogni essere umano. Dichiararsi colpevole mira a farsi segretamente riconoscere come soggetto che fa torto all’Altro. L’uomo si assicura, anche umiliandosi, l’amore del dio supposto detentore della pienezza che egli brama. Gli fa omaggio del sacrificio delle pulsioni la cui soddisfazione l’avrebbe messo in discussione prendendo il suo posto. In altre parole, l’uomo pensa di meritare la collera di Dio per aver voluto impadronirsi di ciò che gli era proprio. Bisogna conciliarselo riconoscendosi colpevoli e rinunciare a ciò che si intendeva eliminare: sessualità, aggressività, autonomia, amore di se stessi. Dichiarandosi colpevole l’uomo si conferma, in modo deviato e segretamente, l’autore dei suoi auspici di morte e del suo odio verso Dio. Ma spera fermamente che Dio gli farà gustare, in compenso, nell’aldilà, i privilegi che sono suoi e la cui assenza lo ferisce crudelmente: immortalità, perfezione, abolizione di ogni finitezza, in una eterna beatitudine. In questo modo il suo desiderio è esaudito perché l’amore del Padre è tale che si manifesta in maniera maggiore nei riguardi del peccatore pentito.
Questo dio è la proiezione del padre maestoso che rampolla dal desiderio infantile di onnipotenza. Suscita nel credente, come nel complesso di Edipo, quel sentimento ambivalente fatto di amore e di odio e quindi anche di timore, perché come dice Freud “l’ambivalenza appartiene all’essenza della relazione con il padre”. Di fronte a questo padre trasfigurato e onnipotente è necessario sottomettersi e annientarsi, esercitare sulle pulsioni la repressione più estrema; da qui una morale rigorista e intollerante per poter meritare l’amore di questo Dio maestoso ma severissimo. All’estremo dell’onnipotenza corrisponde l’estremo del senso di colpa. L’uomo arriverà a pensare che tutto ciò che non va nel mondo, il male, la morte biologica, devono essere sua responsabilità, che egli è il principio di ogni male. Il suo desiderio di onnipotenza è ancora all’opera, ma in maniera negativa.
Il Dio che dona la Legge può assumere due volti: quello positivo, che proibisce e impedisce al fedele di essere reinghiottito nel ventre materno sbarrando l’accesso a un godimento e una completezza mortiferi; lo stesso volto che permette l’accesso al desiderio che nasce dalla mancanza. Ma può anche assumere il volto del “Dio oscuro”, secondo l’espressione di Thomas Römer, del dio sadico che gode nell’imporre una legge arbitraria e segue solo i suoi desideri. È Crono che divora i suoi figli, è Moloch che viene nutrito di carne umana, Baal al quale si devono sacrificare i primogeniti, o ancora gli dèi aztechi ai quali bisogna sacrificare giovani vergini o, in mancanza di queste, degli schiavi o dei prigionieri, per nutrirli di sangue umano. Siamo veramente più evoluti, noi cristiani, quando pensiamo, alla stregua di Anselmo d’Aosta (1033-1109), che Dio ha bisogno della morte e del sangue del suo Figlio perché il suo onore sia salvo e si degni di perdonare i peccati degli uomini? Questa teoria non risulta forse “dall’antica ambivalenza inerente al rapporto con il padre”? Se, così come scrive Freud, “il suo contenuto principale era senza dubbio la riconciliazione con Dio Padre, l’espiazione del crimine commesso nei suoi confronti” aggiunge poi, molto acutamente “l’altro versante della relazione affettiva apparve in questo, che il Figlio, che aveva assunto l’espiazione su di sé, divenne lui stesso Dio a fianco del Padre, e in fondo al posto del Padre. Nato da una religione del Padre, il cristianesimo divenne una religione del Figlio. Non è sfuggito alla fatalità di dover mettere da parte il Padre”. Dio è diventato uomo perché l’uomo divenga Dio al suo posto. Bisogna proprio che il nostro desiderio di essere come Dio sia fortissimo per inventare un tale scenario! Tuttavia, mai Gesù presenta Dio e l’uomo peccatore come se fossero in una situazione di rottura tale per cui bisogna pagare con una morte perché la vita tra loro possa essere riannodata.
Il volto oscuro di DioGli esseri umani sembrano affascinati dal lato oscuro di Dio: cosa vuole da me? Quale volontà esercita su di me per preservare o aumentare il suo godimento? Che fare per soddisfarlo e conciliarselo? Bisogna dargli tutto o solamente una parte di noi stessi? Perché questo dio oscuro sembra volere tutto da me, e in nome del suo amore, avendoci dato tutto, il suo Figlio. In tale teologia della Croce si arriva ad affermare la morte di Dio, fino al deicidio. Se non gli si dà tutto, gli si farà l’offerta del prepuzio “sostituto simbolico della castrazione” (Freud), oppure di una parte dei propri beni o della propria persona, come per esempio la sessualità genitale nella disciplina del celibato ecclesiastico: “La parte per il tutto” come nelle nevrosi, in cui ci puniamo per questo o quel sintomo perché il resto della nostra vita sia risparmiato. Inoltre arriviamo a credere che il nostro desiderio sia una richiesta dell’Altro: madre, padre, Dio. Così Dio ci ordinerà di consacrarci totalmente a lui: gli sacrificheremo quindi una donna sull’altare di nostra mamma. Poiché desideriamo nostra madre, dobbiamo rinunciare a tutte le donne; ci diciamo che è Dio che ce lo ordina perché abbiamo desiderato anche la sua donna (immaginaria). Così facendo teniamo fede al nostro voto di conservare nostra madre per noi soli, restandole fedeli per sempre.
Questo volto oscuro di Dio proviene dal rifiuto della nostra finitezza umana e dal desiderio di essere quella che noi immaginiamo essere la vita di Dio. Questo dio non può amare che di un amore divorante e implacabile: esige tutto, vuole per sé solo il nostro desiderio, distrugge tutto ciò che costituisce la nostra gioia troppo umana, come dice il teologo contemporaneo Maurice Bellet in “Il Dio selvaggio”. Il suo amore mistificatore consisterebbe nel restaurare l’essere umano in una stato di pienezza e onnipotenza. In questo modo fa apparire la condizione umana come intrinsecamente colpevole, come una disgrazia da cui bisogna guarire. Questo amore è infatti una svalorizzazione di ciò che è la nostra umanità reale. L’uomo che adora quel dio, immagine inversa di quella che crede essere la sua debolezza, non può che odiare la sua condizione umana. Si sfinisce nel sedurre quella figura mortifera di Dio, come dice Jean-Daniel Causse nel suo libro “Violenza divina”, scritto con André Wénin e Élian Cuvillier (Bologna, Dehoniane, 2012). Quel Dio rende l’uomo malato e malvagio. Da un lato, l’uomo viene amputato delle sue pulsioni vitali: la sessualità, l’affermazione di sé, una corretta aggressività; dall’altro lato, l’aggressività respinta ritorna con violenza nella difesa delle prescrizioni morali di quel dio, di cui si pensa legittimamente di difendere la causa ridicolizzata. La morale generata dalla figura del dio oscuro è proprio quella del risentimento denunciata da Nietzsche.
Il Dio di Gesù CristoA rischio di essere considerato come un discepolo di Marcione (ca. 85-ca. 160), che voleva abusivamente separare il Dio vendicatore del primo Testamento dal Dio di tenerezza del secondo Testamento, io ritengo che il Dio di Gesù Cristo è una rottura radicale con il dio-super-io, collerico e vendicativo. Mi sembra che Gesù abbia fatto delle scelte pienamente in linea con i profeti. Come ha scritto Jacques Pohier (1926-2007) nel suo libro “Quand je dis Dieu” (Parigi, Seuil, 1977): “Gesù ha bestemmiato contro la condizione che si conferisce l’uomo colpevole”.
In effetti Gesù non esigeva il pentimento quando è andato a pranzare da Zaccheo, pensate, un truffatore! Un esattore delle imposte! È solo dopo che quest’ultimo, tutto gioioso, sconvolto dalla gratitudine, dona la metà dei suoi beni ai poveri. Gesù non caccia, non giudica né condanna la donna adultera, al contrario, la sbarazza del circolo opprimente dei suoi accusatori. Ancora più sorprendente è quindi la sua estrema severità sul tema dell’adulterio (vedi Matteo 5:27-28). È soltanto dopo aver stabilito un collegamento con lei che le dice “Va’, e non peccare più”, come un frutto che nasce dal loro incontro e non come condizione del perdono. La presenza di Dio, e non l’assenza di peccato, può produrre la liberazione e il cambiamento di vita.
Al lugubre e mortale senso di colpa, alla morale della rinuncia che spossa e infetta il godimento masochistico, all’insistenza sull’umiltà che paralizza le forze creative, è bene opporre la parabola detta del “Fattore infedele” nella Nuova riveduta (Luca 16:1-8), che con umorismo tesse le lodi della sua libertà e delle sue astuzie. Per non ritrovarsi senza mezzi di sussistenza e avere qualcuno che lo accolga presso di sé, falsifica in loro favore i conti dei debitori del suo padrone! “E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza”. Siamo molto lontani da una morale del super-io!
Il Sermone sul monte mette in crisi la morale dell’osservanza puntigliosa e ossessiva della Legge: ormai il compimento della Legge consiste nell’amare come Dio ama, compresi i nemici, i nostri e quelli di Dio; e questa è una promessa per coloro che divengono discepoli di Cristo. Il dono immeritato e gratuito di Dio farà frutto in noi da se stesso. Certo, ci viene richiesto di diventare perfetti come Dio è perfetto; ma questo vuol dire essere misericordiosi “[come il] Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Matteo 5:43-48).
Gesù abolisce la distinzione ossessiva, prescritta dal libro del Levitico, tra il puro e l’impuro: tocca i lebbrosi e si lascia avvicinare dalla donna con il flusso di sangue.
Cristo sovverte il nostro desiderio di diventare Dio, incorporandolo in noi alla mensa della comunione; cosa che Freud non aveva visto, data la sua scarsa famigliarità con la fede cristiana. Al momento della Cena si incorpora e ci si identifica con Cristo; ma non è più il dio oscuro onnipotente che viene mangiato, come i figli in rivolta avevano mangiato il padre dell’orda dopo averlo ucciso. È il Dio umile e amorevole “[la cui] potenza si dimostra perfetta nella debolezza” (2 Corinzi 12:9) che si dona affinché noi viviamo della sua vita e perveniamo alla nostra autentica umanità.
Se è quasi impossibile risalire al Gesù storico, l’impatto della sua persona e della sua azione sui discepoli mostra che Gesù ha praticato, in un mondo rigido, soffocante e violento, una formidabile apertura per la quale può ormai entrare un fresco e potente soffio di vita. Gesù porta con sé la possibilità della felicità per ciascuno e per tutti, al di là della maledizione del senso di colpa, al di là delle classificazioni e dei giudizi umani.
Il peccato non è quello che ci immaginiamo, non è nemmeno all’origine della nostra finitezza. Proponendo come esigenza il riconoscimento del peccato al fine di potersene liberare, la fede cristiana può esporci a un morboso senso di colpa; questo tuttavia ha origine da una cattiva comprensione della vera natura del peccato, che è precisamente il voler essere Dio, l’hybris di cui parla Paul Tillich (1886-1965) nella sua “Teologia sistematica”, che ci spinge a inventare il dio terribile e persecutore e a credere che la sua volontà per noi sia di liberarci dalla nostra condizione umana. Il peccato è non riuscire a credere che Dio è agape e che il suo “desiderio” consiste anche nel volerci sgravare del fardello della nostra cattiva coscienza. Ricordiamoci questo versetto della prima lettera di Giovanni: “Poiché se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore“ (1 Giovanni 3:20). Questo è il Dio dell’Evangelo. Il peccato è anche la perversione della Legge, che utilizza quest’ultima per andare contro la sua finalità, ovvero servire l’uomo e proteggerlo (Marco 3:1-6): “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Marco 2:27). Le prescrizioni della Legge non sono assolute. La Legge è ora predisposta al bene e alla felicità dell’uomo.
Dio si rivela in Gesù CristoNon sempre riusciamo a credere e a integrare ciò che ha detto e compiuto Gesù, siamo proprio noi che facciamo sparire il suo Dio annunciando un altro Dio che non è il suo. Gesù infatti, l’abbiamo visto, non si comportava come è tenuto a comportarsi un inviato di Dio: “Gesù bestemmiava contro il senso di colpa” (Jacques Pohier), vale a dire contro quello che l’uomo vuole essere. Occorreva bene che morisse per il bene di tutti, ecco perché è stato assassinato. Noi continuiamo a escludere, a giudicare, a condannare, a porre delle condizioni per accedere a Dio, ricostruiamo senza sosta le statue alla gloria del senso di colpa, il senso di colpa continua a volere la sua morte! La buona novella che Gesù annuncia non è che il Regno di Dio verrà perché gli uomini si sono infine pentiti sotto pena di essere dannati o perché Gesù ha espiato al posto nostro per ottenere il riscatto delle nostre colpe; la buona novella annunciata da Gesù è che il Regno è presente anche per i malati, per le persone male in arnese, chi crede in modo sbagliato, quelli che sono a mal partito, i non conformisti, i peccatori come siamo più o meno tutti noi; tutti noi potremo guarire ed entrare nel dinamismo della Vita che Dio vuole farci vivere e che ci propone fin da oggi. Siamo perdonati in maniera assolutamente gratuita perché siamo amati da quel Dio che è “donazione originale”, secondo la bella formula di Maurice Bellet, “la più grande umanità attraverso il più umile degli dèi, colui che non è Dio nel modo in cui lo sognano gli esseri umani”.
Ormai, come scrive Jean Ansaldi (1934-2010), non c’è più nessun volto oscuro di un Dio nascosto da sedurre, non c’è da cercare chi è Dio e cosa vuole al di fuori della vita e della morte di quel Figlio che ce lo svela nelle condizioni dell’esistenza umana caratterizzata dalla contingenza e dalla finitezza. Sulla Croce muore il dio prodotto dai nostri sogni megalomaniaci di onnipotenza. Non è più possibile disgiungere Dio dal Cristo che lo rivela. Con questa affermazione non voglio dire che Gesù è Dio, ma che in lui Dio si rivela nella maniera più compiuta, egli è l’uomo nel quale Dio dice se stesso. Gesù mostra, attraverso la sua azione, il suo messaggio, tutta la sua vita, la sua morte e resurrezione, il modo di essere di Dio per gli uomini, la sua azione e lo scopo che persegue. Io vedo in lui, simultaneamente, il volto umano di Dio e l’uomo nella sua pienezza in quanto divinizzato, sì, divinizzato! Tutto ciò che l’uomo deve sapere di Dio è rivelato da quel Figlio che manifesta pienamente l’amore di suo Padre, che non è il giudice implacabile che condanna come il nostro super-io, ma il Padre che ama e accoglie, che va incontro ai peccatori quali siamo e ci adotta per renderci liberi. Il Dio nascosto, trascendente nella sua maestà ed essenza, come dice Lutero nel suo “Servo arbitrio”, “non ci guarda”. Non abbiamo più niente a che fare con lui. Per noi esiste solo, ormai, il Dio di Gesù Cristo.
La dolce potenza di DioDegli uomini hanno rifiutato il Dio annunciato da Gesù e hanno messo a morte il suo inviato. Sulla Croce è Dio che subisce la violenza degli uomini, “il Dio che fa violenza diventa il Dio a cui si fa violenza” (Jean-Daniel Causse), nel nome proprio di quel dio oscuro che era quello dei sacerdoti del suo Tempio, nel quale gli venivano offerti dei sacrifici di sangue. Dio si lascia odiare e uccidere dagli uomini, ma non si vendica, lasciando così vedere il suo vero volto. Dio non ha paura della nostra aggressività, non è aggressivo nel modo che l’uomo immagina, non ha come noi bisogno di rispondere all’attacco con un controattacco, non è vivente nel modo in cui lo siamo noi. La resurrezione conferma il Dio di Gesù. Non è un colpo di mano destinato a confondere, a reprimere e infine a sottomettere gli omicidi: è l’attestazione, da parte dello Spirito di Dio, che Gesù è certamente il suo inviato ma anche che Dio non si rassegna alla sua sconfitta (vedi André Gounelle, “Parlare di Cristo”, Torino, Claudiana). Non tutto è finito con la Croce, Dio non ci serba rancore, non è il dio feroce del nostro immaginario. Dio non ha bisogno di distruggere per vivere, non ha paura di noi peccatori. A contrario, a partire da questa morte Dio fa schiudere una vita nuova, come il granello che cade nella terra dà vita a una pianta magnifica. Attraverso la resurrezione, Dio fa suo il perdono accordato da Gesù ai suoi carnefici sulla Croce (Luca 23:33-34). Con questo atto Dio esclude qualsiasi odio dall’espressione della sua potenza, liberandoci così dalla figura dell’idolo del dio onnipotente e perverso che ci costruiamo senza sosta a causa del nostro odio della mancanza e della finitezza, che tuttavia sono parte di noi. Ecco la risposta di Dio alla violenza degli uomini, al crimine della croce. L’amore benevolo nei confronti degli uomini perché diventino veramente umani vivendo un po’ della sua vita, tale è il “desiderio” del Vero Dio e il suo volto luminoso. Il Dio di Gesù Cristo “è per noi, in tutti i suoi aspetti, dono, speranza, vita. E non può esserlo che per tutti gli uomini, pena negare se stesso” scrive ancora Maurice Bellet nella sua magnifica opera “Si je dis credo” (Parigi, Bayard, 2012). “Ciò che noi siamo comincia con il dono, a monte di tutto, che giustifica il nostro essere nati e il nostro essere qui.” La sua dolce potenza è capace di fecondare le nostre vite e forse anche le altre religioni e spiritualità, senza per questo distruggerle, come farebbe quel totem che è il dio tribale dominatore delle nostre fantasie.
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