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I cento anni dell’ospedale di Lambaréné

Questo anniversario bisognava pensarlo e volerlo. Ci si è presto resi conto della sua importanza, tanto Schweitzer rimane nella memoria collettiva soprattutto come “l’uomo di Lambaréné” e poco altro, l’uomo dell’azione epica, che ha compiuto il gesto di fondare un ospedale nella foresta equatoriale e di dirigerlo per più di mezzo secolo. Egli tuttavia cercava di prevenire i posteri: “Quando traccerete il mio ritratto, non voglio comparire come un medico che ha curato dei malati: è la mia filosofia del rispetto della vita che io considero il mio principale contributo all’umanità.” In Alsazia si festeggerà il giorno uno dell’avventura, il momento della sua partenza e del suo sradicamento dall’Europa, il 21 marzo 1913 sulla banchina della stazione di Gunsbach; in Gabon si festeggerà, con la posa di una targa, l’arrivo all’imbarcadero di Andende, la stazione missionaria di Lambaréné il 16 aprile. Questi anniversari prevedono un certo rituale e santificano il mito che ha assorbito in parte la realtà dell’uomo. Qui ci limiteremo a esaminare qualche fatto.Il concorso delle circostanzeIl 21 marzo 1913 era un Venerdì santo. Le biografie faticano a “vederci il puro caso”. Il fischio del treno che entrava in stazione coprì per un istante il suono delle campane che annunciavano l’uscita dal culto del mattino. Un segno? No, un breve accordo musicale. Schweitzer aveva l’intenzione di partire nell’agosto dell’anno precedente, ma lo stato di stress e depressione dovuto alle ultime trattative, in maggio, con la Società delle missioni evangeliche di Parigi (SMEP), il cui comitato minacciava di annullare tutto, lo costrinse a rinviare la partenza. Solo alla fine dell’anno si ristabilì ed ebbe il tempo di terminare, dietro domanda dell’editore, la nuova edizione rivista e ampliata della sua “Storia della ricerca sulla vita di Gesù”, potendo così programmare un nuovo viaggio. Prenotò una cabina per sé e sue moglie sulla nave “L’Europe” che partì da Pouillac, il porto di Bordeaux, martedì 25 marzo. Per essere lì in tempo bisognava lasciare Gunsbach, dove la coppia abitava nel presbiterio, il venerdì in tarda mattinata e prendere il treno Strasburgo-Parigi l’indomani. Per caso dunque quello fu un Venerdì santo, in barba agli psicologi assetati di senso. La nave che collegava Bordeaux a Port-Gentil partiva solo una volta al mese. Non fu certo in uno spirito di Venerdì santo, di sacrificio e di salita al Golgota che il dottor Schweitzer partì con sua moglie, diplomatasi infermiera. Il loro piano non aveva nulla di tragico né di eccezionale: contavano di effettuare una missione medica al servizio della popolazione per due anni, per poi tornare un anno in Europa nella primavera del 1915, dove Albert avrebbe ripreso la sua attività intellettuale e musicale, terminando il suo secondo libro sull’apostolo Paolo e, assieme a Charles-Marie Widor, l’edizione integrale delle opere per organo di Johann Sebastian Bach. Avrebbe tenuto dei concerti per finanziare il ritorno in Africa e la ripresa delle loro attività mediche per altri due anni, e così di seguito. Ecco come progettavano assieme la loro vita, in una maniera tutto sommato ragionevole ed equilibrata, senza eroismi intempestivi. La guerra che scoppiò nell’agosto del 1914 sconvolse tutti i loro piani: interruppe la loro attività nell’ospedale appena costruito facendo di loro prima dei prigionieri, poi delle persone “straniere” sotto sorveglianza prima di essere deportati in campo d’internamento in Francia. Sarà la guerra e ciò che ne seguirà che daranno alla vita e all’opera di Schweitzer un tocco più… drammatico, più romanzesco, più originale. Superò tali prove e decise di ritornare a Lambaréné nel 1924 e di ricostruire il suo ospedale, in condizioni rinnovate che lo emanciperanno dalla SMEP; da qui traccerà un destino che sembrerà straordinario e costringerà all’ammirazione.
Imitazione di Gesù?Schweitzer ha orientato e vissuto la sua vita nell’imitazione di Gesù? Senza dubbio, come conviene a ogni cristiano. A 21 anni è deciso a “non accettare come una cosa del tutto naturale la sua fortuna”, come a dire la grazia stessa della sua vita, ma “di dare qualcosa in cambio”, di dare un taglio o almeno sospendere la sua carriera artistica e intellettuale e compiere “un servizio puramente umano”. Ci metterà del tempo, una decina d’anni, a delineare la natura di tale servizio: prima tenterà a casa sua, a Strasburgo, di dirigere una comitato di azione sociale e socioeducativa per i giovani in difficoltà, prima di trovare la via della sua vocazione nel servizio missionario in Africa. Tale decisione non dovrebbe stupirci venendo da un cristiano, un pastore che predica regolarmente l’amore del prossimo e insiste, nelle domeniche della festa delle Missioni, sull’obbligo di portare soccorso spirituale e fisico ai “nostri fratelli di colore”. Questa decisione dovrebbe apparirci logica, elementare, ovvia fintanto che si è in grado di prenderla. Davanti al muro di incomprensione con cui si scontrò tra amici e parenti gli costò molto doversi spiegare, aprire il suo cuore e invocare “l’atto di obbedienza che il comandamento d’amore di Gesù può esigere da noi in certi casi”. Sono dei sentimenti e delle ragioni così intime e perciò così evidenti a se stesso che si mantiene il segreto per pudore naturale, che si rivelano solo facendosi violenza nella disperazione dell’incomunicabilità. Il colmo fu che, quando finì per svelare tutto, i suoi migliori amici lo accusarono di sussiego! Li offendeva essendo troppo… troppo cristiano. Tuttavia, nell’epoca degli imperi coloniali migliaia di uomini (e di donne, tra i protestanti) partivano ogni anno per fondare o raggiungere delle stazioni missionarie dove non solamente predicavano, ma insegnavano saperi e mestieri, “civilizzavano“ e curavano. Il “caso Schweitzer”, in questo caso doppio perché coinvolgeva marito e moglie, non aveva dunque nulla di insolito, se non che lui aveva cominciato tardi gli studi veri e propri di medicina e che apparentemente sacrificava al suo nuovo progetto una promettente carriera di musicista e professore universitario. “Seguiva Gesù”, sì, lo possiamo dire, ma più nell’immediato seguiva l’esempio di missionari che lo precedevano, già partiti e installati nella stazione di Andende a Lambaréné in particolare. Lì lo attendevano i Morel, alsaziani come lui che lo conoscevano da anni, gli Hermann, i Christol, M. Kast missionario-artigiano, l’istitutrice signorina Humbert, “solo gente per bene”. Quando ebbe il primo contatto con la Società delle missioni di boulevard Arago, il 11 ottobre 1905, rimase impressionato e commosso fino alle lacrime da una cerimonia alla quale poté assistere nella cappella: alcuni missionari che stavano per partire per il Congo prendevano solennemente commiato dalla comunità. “Io ero lì, uno sconosciuto in un cantuccio della cappella. Quale momento! Ascoltavo quegli uomini semplici prendere commiato: delle donne in nero, tristi eppure gioiose, li circondavano. Una atmosfera di vita tra i muri decorati di armi pagane. In quel crepuscolo appena rischiarato da qualche lampada a gas la mia intera vita sfilava di fronte a me e vidi che tutto aveva dovuto succedere in questo modo, ero felice di essere rimasto me stesso… Questi uomini sono semplici e profondi. Non hanno nulla di impacciato. Uno di essi domandò con voce triste se non c’era nessuno nell’assemblea disposto ad andare con lui in Congo per aiutarlo. Se esiste qualcosa come la comunicazione tra le anime, avrà inteso il mio sì. Il direttore, che il pomeriggio era rimasto tutto commosso per la nostra conversazione, prese la parola e citò diverse mie frasi.”

Il direttore di cui parla, con il quale si era intrattenuto nel pomeriggio nel parco Montsouris per discutere della sua candidatura, è Alfred Boegner, che divenne suo amico “nel giro di cinque minuti”. Con il suo obiettivo già fissato e con gli studi di medicina che sarebbero cominciati a fine ottobre, la determinazione di Schweitzer venne ulteriormente rafforzata e divenne, secondo le sue parole, “irrevocabile”, quando sei mesi più tardi, nell’aprile 1906, apprese la morte della missionaria Valentine Lantz, 33 anni, alla stazione di Talagouga a monte di Lambaréné. “Eccomi, cercherò di colmare il vuoto che ha lasciato questa donna, io la rimpiazzerò.” Valentine Lantz, nata Ehrhardt nel 1873 a Schiltigheim vicino a Strasburgo, era ripartita per il “Congo”, come si diceva allora, nel settembre 1904 per insegnare e portare un aiuto medico alla popolazione di Talagouga. Lì aveva perduto suo marito, vittima del paludismo, e suo figlio, durante un primo soggiorno dal 1899 al 1902. Durante il suo congedo a Parigi si perfezionò in infermieristica e ostetricia e poi ritornò, sola, “al suo posto di lavoro”. In capo a un anno e mezzo se ne andò a sua volta per una crisi di paludismo. La vita di questa donna, così breve e tuttavia così piena, che gli indigeni soprannomineranno nella loro lingua “Colei che sorride sempre”, non fu meno eroica, nella sua determinazione, e meno “sacrificale” della vita di Schweitzer. Inoltre acquistò una dimensione tragica ed entrò nel martirologio delle missioni a causa della morte sopravvenuta così presto sul fronte, se così possiamo dire.
Il mistero dei destini e della fedeQuanti destini altrettanto tragici in terra africana dall’inizio dell’era delle missioni, parallela all’era delle colonie! Il registro della Società delle missioni ne è pieno. Schweitzer ne conobbe parecchi direttamente, nel suo ospedale o nel suo entourage (alla fine del 1929 un giovane medico svizzero, il dottor Éric Dölken, che stava per raggiungerlo, morì sulla nave). Lui, al quale la tragedia fu risparmiata, era il primo a riconoscere la grazia di cui beneficiava, la fortuna insigne che aveva di conservare la salute che resisteva al clima e misurava il debito che contraeva nei confronti degli scomparsi o di coloro che la sorte aveva spezzati od ostacolati.

Ragionamento inevitabile: se qualcuno come Valentine Lantz e molti altri si sono impegnati nelle missioni fino al sacrificio, anch’io devo farlo, se posso. Ora io posso, sono libero, in quanto cristiano e in quanto essere umano; compiere il proprio dovere di cristiano e il proprio dovere di essere umano sono la stessa cosa, e viceversa. “La vera religione si confonde con il vero sentimento d’umanità.” Una religione è vera quando quando si confonde con questo sentimento e lo fa vivere, lo innalza e lo sostiene. Il cristianesimo in particolare è vero, è vera religione a questa condizione e in pratica a nessun’altra. In un certo senso la fede precede le religioni, che non fanno che darle una forma e una particolare espressione culturale. In un secondo tempo, a causa dei loro epigoni, le religioni giungono inevitabilmente ad alterare la fede, persino a pervertirla. Si apre allora e si sviluppa una storia tutta umana, interminabile e forse dialettica fatta di una successione di tradimenti e di pentimenti, di delitti e di castighi, di riforme, di risvegli, di ritorni alle fonti e di lotte per l’istituzione e il potere.

Bella cosa che il pastore Alfred Boegner e il pastore Albert Schweitzer si siano sentiti amici “in capo a cinque minuti” al loro primo incontro (su una panchina pubblica del parco Montsouris…). Ideologicamente non era un’amicizia scontata. Boegner era un uomo liberale e generoso ma un teologo alquanto pietista e ortodosso, in consonanza con le convinzioni della maggior parte dei membri del comitato della SMEP che lui dirigeva. Non ignorava l’ispirazione liberale dei sermoni e dei lavori storico-critici del suo confratello alsaziano. Ma, come spiegò davanti alla Commissione degli studi incaricata di esaminare le candidature, “è impossibile non rimanere colpiti dall’intensità della sua fede e della sua vocazione. Parla di Gesù come del maestro al quale deve tutto, al quale si domanda e del quale si attendono gli ordini, al quale appartiene tutta intera la sua vita”. Boegner esprimeva così la propria fede: la stessa altezza mistica e la stessa umiltà. Da parte sua, Schweitzer riteneva che al livello esistenziale, che deve venire per primo, l’opposizione ideologica tra liberali e ortodossi appariva “fittizia”. Per chi si ostina in questa opposizione e dimentica i comandamenti pratici dell’Evangelo, è quasi… malafede. Andando oltre i dogmi, l’intesa si compie da volontà a volontà, da cuore a cuore, nell’azione comune. Il dottor Schweitzer, che in fin dei conti non era stato accettato come missionario ma solamente ammesso in quanto medico e a malapena tollerato come ospite alla stazione di Lambaréné (aveva dovuto giurare che non avrebbe predicato e che sarebbe rimasto “muto come un pesce”), fece rapidamente, sul campo, l’esperienza della fraternità e della cordialità. Meno di un mese dopo il suo arrivo fu invitato (autorizzato!) a predicare, 11 maggio domenica di Pentecoste. I missionari del luogo l’avevano già sciolto dal suo giuramento! “Come io non feci il minimo tentativo di disturbarli con le mie vedute teologiche, essi perdettero ben presto ogni diffidenza nei miei riguardi e si compiacquero, come me, che fossimo uniti nella pietà, nell’obbedienza a Gesù e nella volontà della semplice pratica cristiana.”
La terribile logica delle ideeNel corso della sua lunga vita, interrogato e interrogandosi sulle sue motivazioni e la sua vocazione, Schweitzer ha risposto in maniere molto diverse, giudicate contraddittorie. Sembra oscillare tra una professione di fede assolutamente pietista, dalla formulazione perfettamente ortodossa a una posizione “liberale” puramente logica, espressa nel solo linguaggio della ragione e senza un fondo religioso. In un momento critico per lui, l’inizio dell’anno 1905 in cui stava per compiere trent’anni, vincolato al suo giuramento di consacrarsi ormai a un “servizio direttamente umano”, può scrivere nella stessa lettera, nello stesso spirito: “Io voglio vivere e agire come un discepolo di Gesù, è la sola cosa alla quale credo” e, dice righe più in basso, “Ho distrutto tutto ciò che fa la religione per non lasciar sussistere che la sola realtà dell’imperativo categorico”.

Boegner, durante la conversazione di preparazione e prova, aveva sentito che Schweitzer obbediva al comandamento di rimettersi totalmente a Gesù, il “Maestro di vita”. Ma lo stesso spiegò più tardi a Hélène che quando aveva esposto a Boegner la sua “idea” e come ci era arrivato, quest’ultimo rimase colpito “dalla semplicità e dalla logica” del suo pensiero. Schweitzer si sentiva irresistibilmente spinto dalla logica delle idee ed esigeva per esse la chiarezza della ragione. “È la mia terribile logica che le prepara, le dirige, mi abbandona ad esse, questa logica che non mi permette alcun sotterfugio e mi obbliga a cercare ciò che deve davvero riempire la mia vita.” Schweitzer invoca simultaneamente (oppure volta a volta) Gesù e la ragione o la logica. Parla a ciascuno la sua lingua, ma in tutta sincerità, senza alcuna tattica. Per lui, il messaggio evangelico e il discorso della ragione correttamente utilizzata, a proposito della questione del senso da dare alla nostra esistenza (la domanda kantiana: che cosa dobbiamo fare?) si sovrappongono e sboccano nella medesima conseguenza etica. Vivere veramente, “la vera vita”, vivere nella verità significa vivere per aiutare a vivere chi è in difficoltà, chi è infelice, chi soffre. Perché? Per stabilire la giustizia, la giustezza dell’uguaglianza. Il principio di uguaglianza si trova al cuore della ragione, è il motore che la spinge nelle operazioni matematiche come nelle costruzioni politiche (vedi Platone). Il mondo “giusto” che dobbiamo costruire assieme è quello della volontà di Dio, quello della promessa del suo Regno. Come potrebbe Dio volere qualcos’altro? Egli è per definizione il Bene destinato a divenire sovrano, che sta per diventarlo attraverso l’umanità. Arriviamo a porre un’equazione (un’equivalenza) tra Gesù come “voce di Dio” e la ragione. Non stupitevi se diciamo, contro il nostro sentimento naturale e il nostro romanticismo, che Gesù è solubile nella ragione. Niente di nuovo! Giovanni, l’evangelista teologo, non l’ha forse identificato con il Logos, non ha postulato come preludio del suo insegnamento che egli è “il Verbo fatto carne”? Questo non indica altro che la sua “solubilità”. Un filosofo, Kant, nel culmine dell’Età dei lumi aveva sostenuto che il cristianesimo è solubile in una religione contenuta “nei limiti della semplice ragione”. Schweitzer era kantiano (la sua dissertazione per il dottorato in filosofia del 1899 verteva proprio sulla filosofia della religione in Kant). Fu Kant a “distruggere”, ovvero decostruire la religione, più precisamente le mura del cristianesimo, per “lasciar sussistere solamente l’imperativo categorico”, un imperativo o comandamento etico che si potrebbe convertire in questi termini: Agisci sempre, per quanto possibile, in modo da contribuire, attraverso i tuoi atti e il tuo comportamento, a riparare i mali di questo mondo e favorire lo sviluppo della vita tra gli esseri umani così come tra essi e gli altri esseri viventi. È ciò che comanda il senso stesso del fenomeno della vita, che manifestamente vuole la vita, ne vuole di più e la vuole migliore, vuole l’evoluzione, vuole, per utilizzare un termine abusato, il “progresso”. Ed è ciò che comanda Dio.
Gesù o la ragioneA Widor che durante un pranzo da Foyot, forse nell’ottobre 1905, cercava di dissuaderlo, Schweitzer, stufo e a corto di argomenti, non seppe che mormorare due volte: “Dio mi chiama”. Non disse “Gesù” ma è difficile dubitare che fosse la sua voce, che in termini profani non è diversa – non ha altra realtà – dalla voce della coscienza, la voce del dovere, “nome sublime e grande…”, che “eleva l’uomo al di sopra di se stesso”. Anche se si dichiarava chiamato da Dio e progettava di lavorare in una stazione missionaria, concepiva la propria opera prima di tutto come umana “piuttosto che religiosa”. Circa venti anni più tardi, nel 1926, si prese la pena di scrivere una lunga lettera al professor Oskar Kraus dell’università di Praga, il primo che gli consacrò un saggio filosofico dopo la comparsa, nel 1923, dei due tomi della sua Kulturphilosophie (“Scomposizione e ricostruzione della civiltà” e “Civiltà ed etica”). La lettera, scritta all’ospedale una domenica pomeriggio “relativamente calma”, serviva a confessare e chiarire la contraddizione che il suo amico aveva sottolineato. “Amo il razionalismo come amo Gesù. Devo moltissimo all’uno come all’altro. Nella mia anima le due cose si riconciliano e si uniscono. Non mi chiedete di spiegarlo: è così e basta! E, cosa ancora più curiosa: è a me che è toccato il compito di distruggere l’immagine di Gesù edificata dal razionalismo e dalla sua erede, ugualmente carissima al mio cuore, la teologia liberale! Proprio perché mi sento interiormente legato al razionalismo rimango estraneo a tutto ciò che oggi si presenta o che viene presentato come mistica…”. Anni più tardi, nel maggio 1957, il giornalista americano Norman Cousins, in missione speciale a Lambaréné per tentare di persuadere Schweitzer a pronunciarsi pubblicamente contro la corsa agli armamenti atomici, osò domandargli se non avesse orientato la sua vita sull’imitazione di Cristo. Cousins lo vide sul posto come carpentiere e guaritore: le similitudini erano sconcertanti. Erano dei segni? Schweitzer non si innervosì. A tutta prima rispose a voce bassa che la figura di Cristo era un modello universale degno di essere imitato da tutti gli uomini. Poi, dopo un attimo di silenzio, aggiunse che non gli piaceva che la gente si immaginasse che lui si identificava con Gesù. La decisione da lui presa di consacrarsi ad una azione umanitaria era perfettamente razionale e in armonia con gli altri aspetti della sua vita. Non aveva sentito nessuna voce. Molti teologi gli dissero di avere udito direttamente la parola di Dio. Lui non ne voleva discutere; solamente constatava che dovevano avere delle orecchie più fini delle sue!

Una battuta maliziosa? Cosa dobbiamo pensare? Sono numerosi i teologi che credono di discernere un’evoluzione nel pensiero religioso di Schweitzer, che sarebbe diventato sempre più liberale fino ad abbracciare in età avanzata la causa dell’unitarianesimo (negazione del dogma della Trinità) sotto l’influenza degli americani, tra cui proprio l’assiduo pubblicista Norman Cousins. Sarebbe divenuto sempre più apertamente scettico per quanto riguarda la divinità di Gesù e l’esistenza di Dio. Queste accuse di agnosticismo eretico sono piuttosto grossolane. Ci pare più pertinente, sulla base dei dati biografici e dei suoi scritti, sostenere la tesi della continuità e della fedeltà a se stesso. Lungo tutta la sua opera non farà che riprendere e sviluppare con mille variazioni, a seconda delle “situazioni di comunicazione” (come pastore, come professore o come amico nel dialogo a tu per tu), le intuizioni teologiche originarie dei suoi vent’anni sul pensiero fondamentalmente escatologico di Gesù, del giudaismo e del cristianesimo, e in verità di tutti i tipi di religione, compreso l’ateismo e l’“antireligione” (come il marxismo). L’escatologia, nelle sue diverse forme storiche o culturali, non è null’altro che un’espressione della speranza che fa battere il cuore di quegli esseri mortali che sappiamo di essere. L’irriducibile singolarità di Schweitzer sul piano del pensiero, che attrae i filosofi e interpella i teologi, sta proprio in questo parallelo che egli stabilisce tra la parola del cuore, che egli ode risuonare in Gesù, e il discorso della ragion pratica che riflette sul senso della vita e su quello che dobbiamo fare per migliorare questo mondo. Per definizione matematica le parallele si incontrano all’infinito, da qualche parte nell’assoluto. I diversi elementi presenti sulle linee si lasciano permutare dall’uno all’altro; quello che troviamo detto nel linguaggio religioso di Gesù per simboli e parabole si lascia dire altrettanto bene e chiaramente con i concetti del linguaggio filosofico. Da virtuoso dell’organo Schweitzer suona in successione il medesimo spartito su due registri. Grazie a questo comprenderemo anche, senza stupirci, la doppia natura dell’opera medica realizzata a Lambaréné, indissociabilmente missionaria e umanitaria, “sovraconfessionale” come diceva lui, anzi diremmo “sovrareligiosa”, laica nel senso francese, civile, comprensibile ai non credenti come ai credenti e capace di unirli. Ecco cosa fa di “Lambaréné” l’emblema della vita di Albert Schweitzer e, al di là di questo (non incarnato in lui) un simbolo universale che continua a brillare nella storia del cristianesimo e nella storia dell’umanità.

L’opera di Albert Schweitzer “La mia vita e il mio pensiero” è stata edita dalle Edizioni di Comunità nel 1986 ed è attualmente esaurita.

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