Di Jean-Marie de Bourqueney
pastore della Chiesa Protestante Unita a Parigi-Batignolles. Partecipa alla redazione e alla direzione di Évangile et Liberté. Si interessa soprattutto di dialogo interreligioso e teologia del processo.
Traduzione di Giacomo Tessaro
Ripensando al legame tra esseri umani e animali attraverso la lente degli animali da compagnia, Jean-Marie de Bourqueney ci invita a riconsiderare il nostro modo tutto protestante di accompagnare la morte dei nostri simili.
Un giorno, quando avevo appena visto morire tra le mie mani uno dei miei adorati gatti, un membro del consiglio di chiesa mi rimproverò vivamente di non essere venuto al consiglio perché ero tutt’ora in lacrime, arrivando a dirmi che era scandaloso che un pastore preferisse il gatto ai suoi collaboratori. È vero, quella sera non pensavo che al mio gatto e piangevo per lui. Dicendo questo so bene che esiste un abisso, e forse esisterà sempre, tra chi considera il suo animale un membro intimo della famiglia e chi pensa che sono solamente animali… Questi ultimi (spesso, non sempre) non hanno, non hanno mai avuto e non avranno mai un animale da compagnia. È una questione molto passionale, talmente passionale che chi vive il lutto per un amico animale spesso non osa parlarne, per paura di reazioni negative (come quella del mio membro di chiesa…) o anche per la vergogna di vivere un’autentica sofferenza “per così poco”… Quando piangono, lo fanno di nascosto.
Andiamo oltre: in che modo pensare e accompagnare questo tipo di lutto evitando le due trappole che ci presenta l’eccesso di dialogo (magari tra sordi): negare l’esistenza del lutto da una parte, e umanizzare eccessivamente gli animali, dall’altra? Il nostro protestantesimo ha senza dubbio qualcosa di utile, un’argomentazione, per farci trovare il punto d’equilibrio. Vogliamo parlare del modo in cui accompagniamo il lutto nelle nostre famiglie. Nella Chiesa Cattolica la celebrazione del funerale è prima di tutto l’accompagnamento della persona deceduta, e in secondo luogo l’accompagnamento del lutto di chi rimane. Alla fine della celebrazione c’è l’assoluzione, vale a dire la benedizione del morto per, in qualche modo, inviarlo nel mondo di là, nelle mani di Dio. Difficilmente potremmo immaginare qualcosa di simile per un gatto o un cane… Ma (ed è senza dubbio una differenza più fondamentale di quanto si pensi) il nostro protestantesimo ha fatto un’altra scelta, quella di desacralizzare la morte. Nel XVI, perlomeno in certe regioni, i pastori non avevano il diritto di seppellire i morti, invocando il famoso versetto evangelico “Lasciate che i morti seppelliscano i propri morti”, accentuando così l’irriducibile abisso tra la nostra vita e l’altra… Ormai non c’erano più preghiere per i morti, nessuna presenza pastorale. Tradizionalmente, quando qualcuno moriva, lo si seppelliva e poi si celebrava un culto di azione di grazia, senza la bara. Ci si guardava bene dal parlare della vita del morto e ci si accontentava di “annunciare la resurrezione”. Era una posizione polemica, quindi spesso categorica, che nel tempo è evoluta, possiamo dire che si è umanizzata, anche se certi protestanti si fanno ancora un vanto di non lasciare alcuno spazio alle emozioni… Ma quale fu l’intuizione di base dei riformatori? Precisamente quella di affermare che l’essere umano, al di là della morte, è accolto per grazia in quell’altra realtà, quell’altra vita, nelle mani di Dio. I morti non hanno bisogno delle nostre preghiere! La conseguenza primaria [di questa posizione] è che ormai in primo piano c’è il lutto dei vivi. Ancora oggi, durante la celebrazione di un funerale, l’accento è decisamente posto sull’accompagnamento del lutto, più che su quello del defunto, [ormai] accolto nell’altra vita… Perciò la reazione delle persone, e sono la grande maggioranza, che assistono ai nostri funerali ma non fanno parte delle nostre Chiese, è abbastanza unanime: [spesso] ci dicono quanto siamo “umani”, nella compassione più che nel rito, ed è vero, perché affermiamo che il lutto è il centro del nostro accompagnamento.
Torniamo ai nostri animali, e applichiamo il nostro principio protestante di accompagnamento del lutto. Se consideriamo il decesso di un animale da compagnia come un lutto, la Chiesa non ha nulla da dire? È obbligata a negare l’esistenza e la realtà di questi lutti, vissuti da milioni di persone? Ci sono forse sofferenze legittime e sofferenze illegittime? La discussione non è tanto su cos’è un animale (che comunque è una questione che deve essere trattata), ma sul considerare in modo serio le nostre relazioni intime e amorevoli con gli animali da compagnia, che pur non essendo esseri umani fanno parte delle nostre famiglie. La Chiesa, dimenticando i nostri animali, corre forse, paradossalmente, il rischio di divenire disumana… Senza dubbio corriamo tutti il rischio di quell’antropocentrismo secondo il quale l’essere umano è il compimento ultimo e unico della creazione, il solo ad avere diritto ad una forma di partenariato esclusivo con Dio. Il nostro concetto biblico di Alleanza tra Dio e l’umanità è infatti la forma teologica dell’antropocentrismo, ma (c’è sempre un ma) è un concetto che conosce molte sfumature. Nel racconto mitologico di Genesi 1 l’essere umano è posto in una relazione responsabile con la natura, in particolare con gli animali. Nel racconto del Diluvio, anch’esso mitologico, l’essere umano, che prende la forma di Noè, deve salvare gli animali.
Nella filosofia e nella teologia del processo parlare vuol dire evocare cose, esseri e “strutture esistenziali”, vale a dire l’insieme delle relazioni che quella cosa o quell’essere intrattiene con il suo ambiente. Il sassolino, per esempio, ha un tempo lungo ma una struttura esistenziale semplice, priva di autonomia. Più ci avviciniamo all’essere umano più la struttura diventa complessa e va verso l’autonomia e la libertà di decisione, e questa maggiore complessità porta con sé l’aumento del numero delle interazioni con l’ambiente. L’essere umano è in relazione, in gran parte libera e responsabile, con l’insieme degli animali, della natura, e ovviamente degli altri esseri umani, e sono queste relazioni, tra le quali va annoverata la cultura, che definiranno cosa un individuo è, o piuttosto cosa diviene. Come scriveva Simone de Beauvoir: “Non si nasce donna, lo si diventa”. Questo ci richiama alla mente la teologia del processo, che su questo punto è molto esistenzialista e afferma che noi siamo costituiti dal concatenarsi degli avvenimenti. Se applichiamo questo concetto agli animali da compagnia, vediamo che le loro interazioni sono in gran parte con noi, al punto che finiscono per preferire l’umanità ai loro simili. Chi vive con degli animali da compagnia lo sa bene: la questione del linguaggio continua ad affascinarci. Un animale e un essere umano possono comunicare su molte cose, non solo sull’alimentazione e i bisogni primari. Non esiste una frattura così netta tra mondo animale e mondo umano. Gli animali da compagnia rimangono animali, certo, e devono essere rispettati come tali, ma sono in parte umanizzati nel loro divenire e nelle loro relazioni. Non vogliamo antropomorfizzarli, bensì prendere sul serio una relazione tra due esseri che creano un legame che può essere definito di amore reciproco.
Le leggi sono evolute più in fretta delle nostre Chiese, e ormai per la legge un animale è “un essere vivente e sensibile”, non più un oggetto di cui disporre a capriccio. Non vogliamo ovviamente invitare a creare delle liturgie funebri per i nostri animali, invitiamo piuttosto ad essere veramente protestanti, attenti alle sofferenze umane, a tutte le sofferenze umane, con la preghiera, le azioni e le parole. Desideriamo ripensare anche il nostro rapporto con il mondo animale, che non è un tutto omogeneo ma una moltitudine di esistenze che interagiscono con la nostra.
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